Oggi è la Giornata della Felicità, solo se siete uomini

Che l’Onu non sia più un’organizzazione da prendere sul serio si era capito molto prima del 2012, quando istituì il World Happiness Day, la Giornata mondiale della Felicità, scegliendo come data il 20 marzo, inizio della primavera e del risveglio della natura solo nell’emisfero settentrionale (in quello australe comincia l’autunno e la natura se ne va a nanna). Tanto per far capire qual è la metà del mondo di cui importa davvero la felicità, e da cui geopoliticamente spesso dipende anche quella dell’altra metà.

Del resto anche la diversa sfumatura etimologica fra i vocaboli che indicano la felicità rivela che su quel concetto, come su molti altri, le nazioni non sono unite per niente. L’inglese Happiness è linguisticamente parente di “happen”, succedere, e suggerisce che la felicità dipende da eventi fortunati, stessa cosa per il tedesco Glück: per i nordici la felicità è in buona sostanza questione di culo. Il francese Bonheur deriva da bonum augurium, cioè favore divino, mentre l’italiano felicità ha la stessa radice di fecondità, fertilità e feto: i nostri antenati latini identificavano implicitamente l’appagamento con i successi generativi e riproduttivi, sulla stessa linea di Pillon, Roccella e Adinolfi, che sottoscriverebbero di corsa anche l’ideale romano della piena realizzazione femminile: Casta fuit, domi mansit, lanam fecit. E allora, nella Giornata mondiale della felicità, che rischia di essere considerata più o meno come le otto risoluzioni Onu sull’occupazione dei Territori da parte di Israele, parliamo un po’ di quel che rende felice la parte di umanità più direttamente coinvolta in tutte le faccende di fecondità, fertilità e feti: le donne.

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