25 Aprile, perché oggi proclamarsi antifascisti non basta

Quanti anni mancano perché il 25 Aprile diventi una versione più noiosa del 25 maggio, il Towel Day, la giornata in cui i fan di Guida galattica per gli autostoppisti vanno in giro con un asciugamano sulla spalla per celebrare Douglas Adams? Pochi, mi sa. Non c’entra solo il consenso per politici cui pronunciare la parola “antifascismo” provoca una specie di choc anafilattico.

È che negli ultimi 30 anni nella testa di tanta gente le parole “Liberazione” e “Libertà” sono migrate dall’ambito politico e civile, per trasferirsi nelle aree delle emozioni. Paradossalmente, chi vota i partiti che orgogliosamente si smarcano dalla Festa della Liberazione lo fa perché spera (invano) che possano liberarlo da qualcosa o qualcuno da cui si sente oppresso, offeso o perseguitato: le tasse, gli intellettuali che parlano difficile, la musica ad alto volume, gli studenti che protestano, i comunisti, e soprattutto gli stranieri, migranti e rom, e i criminali, specialmente se stranieri, migranti e rom. La mancanza di concorrenza, lo sfruttamento, la disuguaglianza e la violenza di genere, l’emarginazione e la fuga all’estero dei giovani non sono percepiti come una limitazione alla libertà e alla dignità dei cittadini, né come un problema urgente e doloroso da combattere e, se possibile, eliminare. Ancora meno preoccupante è la compressione dei diritti civili, a cominciare da quello d’espressione, che al massimo può interessare a chi sa e vuole esprimere il proprio dissensoapertamente, in forma articolata e mettendoci nome e faccia, e non con un nick accanto alla foto di un gatto. Una minoranza rumorosa, privilegiata e acculturata di cui il Paese reale non sa che farsene e di cui, in ultima analisi, si dovrebbe liberare.

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