Cos’è questa storia dello ’spot della patatina sacrilega’

L’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, l’associazione di autoregolamentazione in cui confluiscono aziende, agenzie pubblicitarie e media, ha deciso di accogliere l’appello dell’Associazione Italiana Ascoltatori Radio e Televisione, una onlus cattolica, e di bloccare uno spot che aveva fatto molto discutere negli ultimi giorni.

La pubblicità sotto accusa è stata lanciata qualche giorno fa dall’azienda Amica Chips. La reclame è ambientata in un convento, nel quale un gruppo di novizie è in fila per ricevere l’eucarestia. Appena prima una suora aveva notato che le ostie erano finite e aveva così deciso di sostituirle con delle patatine. Pertanto, una volta presa l’eucarestia, le novizie non ricevono l’ostia, ma una patatina, che per loro meraviglia e giubilo scrocchia sotto i loro denti. Al termine della pubblicità appare il claim: “Il divino quotidiano”.

Sin da subito lo spot era stato aspramente criticato. Aiart aveva giudicato la pubblicità offensivadella sensibilità religiosa di milioni di cattolici praticanti, mentre per il suo presidente, Giovanni Baggio, la reclame era blasfema perl’accostamento tra patatina e la particola consacrata”. Sul tema erano intervenuti anche il presidente del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi e l’ex parlamentare della Lega Simone Pillon, che avevano anche minacciato azioni legali.

Ieri il Comitato di controllo dello Iap ha annunciato di aver sospeso lo spot, definendoloin contrasto con l’articolo 10, quello sulleConvinzioni morali, civili, religiose e dignità della persona’ del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, secondo il quale ‘la comunicazione commerciale non deve offendere le convinzioni morali, civili e religiose’”. In particolare, il Comitato ha spiegato che “il parallelismo che il messaggio instaura tra la patatina, descritta comeil divino quotidiano’, e l’ostia, che rappresenta evidentemente il divino, si sostanzia nella derisione del senso profondo del sacramento dell’eucaristia, rendendo più che ragionevole che il credente e non solo si senta offeso”. Il Giurì ha poi specificato che nelle sue decisioni aveva già tutelato le convinzioni religiose, non in quanto bene della collettività o della sua maggioranza, ma come bene individuale, riconosciuto ai cittadini “senza distinzioni di sorta fra le possibili opzioni religiose”. In questo senso, con la sua decisione, il Comitato dello Iap ha spiegato di aver difeso il diritto individuale dei consumatori anon essere urtati nelle più profonde convinzioni da campagne pubblicitarie che essendo strumentali ad interessi di natura prettamente economica non devono confliggere con valori tendenzialmente assoluti e di rango superiore”.

L’ideatore dello spot di Amica Chips, Lorenzo Marini, ieri, in un’intervista al ‘Gazzettino’, si è difeso dalle accuse di blasfemia. “Io sono cattolico, come tanti in Italia. E rispetto tutti i consumatori. In qualche modo lo avevo previsto. Come si dice: “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”. Il fatto è che oggi tutto è sdoganato. Alcuni amici mi hanno detto che sono stato il primo al mondo a fare una pubblicità incentrata sul sacramento della Comunione. Ma io descrivo come divino anche un bel piatto di ‘risi e bisi’ fatti bene”, ha detto. Il pubblicitario ha poi aggiunto che la sua intenzione era quella di “fare qualcosa di leggero, ironico, un po’ allaSister Act’”. Per questo, “ho pensato a un contesto opposto a quello di Siffredi”, già protagonista di uno spot della stessa azienda.

Le scuse sono però valse a poco, dato che ieri mattina l’avvocato Antonio Arciero, attivo sul Foro di Milano, ha depositato una denuncia alla Procura di Mantova, sede legale dell’azienda Amica Chips, contestando alla società, in relazione allo spot, i reati di “offesa a una confessione religiosa mediante vilipendio di personeeoffesa a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose”. Il legale ha aggiunto che ha intenzione di “coinvolgere parrocchie o organizzazioni che possano costituirsi parte civile e chiedere un risarcimento”, in modo tale da “sensibilizzare coloro che hanno commesso questi fatti per fargli comprendere la gravità dal punto di vista penale”. La vicenda potrebbe dunque finire in tribunale.

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