Perché la scalata al calcio dell’Arabia Saudita fa paura?

La scalata saudita nel calcio si fa inarrestabile e le reazioni da parte europea sono sempre più isteriche. Manifestano una paura scomposta, perché emotivamente sregolata, ma anche colma di incoerenze. Quei petrodollari intimoriscono, ma al tempo stesso sono ambiti. La solita doppia morale, poiché li si valuta a seconda che schiaccino nell’angolo di una concorrenza non sostenibile o che diano ossigeno a finanze asfittiche.

Ma al di là dell’incoerenza, cosa davvero fa paura di questa massiccia dimostrazione di forza finanziaria saudita?

Risposta semplice: si ha paura di perdere centralità. Che significa veder dissolvere non soltanto potere economico e politico, ma anche egemonia culturale, facoltà di dettare l’agenda delle priorità, governare i processi di mutamento. Una prospettiva difficile da accettare, ma che si espande nel mondo del calcio, e dello sport in generale, in piena coerenza con quanto sta accadendo nel vasto scacchiere globale della politica.

I sauditi si stanno prendendo non soltanto il calcio, ma lo sport intero. Si annettono il golf con la Liv Golf, si apprestano a fare altrettanto col cricket, hanno messo le mani sul vasto fenomeno degli e-sport, vogliono il secondo Gran Premio annuale di Formula 1 dopo l’appuntamento fisso a Gedda, da far disputare nella città futuristica di Neom, che ospiterà i Giochi invernali asiatici del 2029, e hanno appena soffiato la Next Gen di tennis a Milano.

Dunque, si tratta di un’espansione a tutto campo, che vede lo sport come un pezzo strategico nel campo dell’economia dell’intrattenimento. Che è anche una delle economie cruciali del XXI secolo, unitamente a quella delle energie rinnovabili. Il piano strategico di sviluppo nazionale, Vision 2030, consegna allo sport grossa parte delle ambizioni di fare dell’Arabia Saudita una potenza globale non soltanto sul piano economico, ma anche sul piano culturale e degli stili di vita.

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